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Patogenesi: ipotesi biochimiche

Le principali ipotesi riguardanti la patogenesi dei disturbi depressivi postulano, come deficit fondamentale, la possibile destabilizzazione dei sistemi neurotrasmettitoriali centrali. Nel corso degli anni, tuttavia, si è compreso che la depressione non può essere ridotta a una semplice carenza monoaminergica, ma rappresenta il risultato di una complessa interazione fra vulnerabilità genetiche, eventi stressanti, disfunzioni neuroendocrine, meccanismi infiammatori e alterazioni della neuroplasticità.

La teoria catecolaminergica e serotoninergica

Le prime teorie patogenetiche risalgono agli anni '60 e si fondano sull'osservazione che i farmaci antidepressivi agiscono potenziando l'attività dei sistemi monoaminergici cerebrali, in particolare attraverso l'inibizione della ricaptazione sinaptica o della degradazione enzimatica di noradrenalina (NA), serotonina (5-HT) e dopamina (DA). Secondo questa impostazione, la depressione si accompagnerebbe a un deficit funzionale dei neurotrasmettitori monoaminergici, mentre la mania a un loro eccesso.


Schildkraut osservò che, durante gli episodi depressivi, i pazienti mostravano un incremento dei metaboliti urinari della noradrenalina, in particolare acido vanilmandelico (VMA) e normetanefrina (NM). Tale incremento si riduceva con la somministrazione di antidepressivi triciclici o inibitori delle monoamino-ossidasi (IMAO), suggerendo un'eccessiva deaminazione intracellulare della NA. Questo meccanismo impedirebbe al neurotrasmettitore di essere rilasciato nello spazio sinaptico, riducendone la disponibilità per la trasmissione post-sinaptica.


A supporto di questa teoria, anche studi sulla renina plasmatica attivata (PRA) in ortostatismo, considerata un marcatore dell'attività adrenergica periferica, hanno evidenziato una risposta significativamente attenuata nei pazienti con depressione maggiore rispetto ai controlli. L’attivazione simpatica, mediata da stimolazione ipotalamica, risulterebbe dunque bloccata o disfunzionale nei soggetti depressi.


Per quanto riguarda la serotonina, numerosi studi hanno documentato nei soggetti depressi una riduzione dei livelli di acido 5-idrossiindolacetico (5-HIAA) nel liquido cerebrospinale (CSF), suggerendo una diminuita attività serotoninergica centrale. Il deficit di 5-HT è stato inoltre associato a una maggiore impulsività e a un aumentato rischio di suicidio. Anche il riscontro di bassi livelli urinari di N-1-metilnicotinamide ha fornito un’ulteriore conferma di un alterato metabolismo serotoninergico.


Nonostante il supporto iniziale, la teoria monoaminergica è stata parzialmente ridimensionata da alcuni rilievi clinici e farmacologici. In primo luogo, gli effetti terapeutici degli antidepressivi richiedono settimane per manifestarsi, nonostante le modificazioni neurochimiche compaiano dopo poche ore. In secondo luogo, sostanze come cocaina e anfetamine, che aumentano potentemente la disponibilità sinaptica di monoamine, non hanno effetti antidepressivi prolungati, mentre alcuni antidepressivi di nuova generazione non agiscono attraverso la ricaptazione monoaminergica.


Questo ha condotto allo sviluppo del concetto di “down-regulation recettoriale”: i triciclici e altri antidepressivi inducono una riduzione dell'espressione dei recettori beta-adrenergici post-sinaptici e dei recettori 5-HT2, fenomeno che avviene progressivamente nel corso della terapia e sembra correlare con il miglioramento clinico. È stato inoltre dimostrato che la down-regulation beta-adrenergica richiede un input serotoninergico e viceversa, a dimostrazione della stretta interazione funzionale tra i due sistemi.

La teoria dopaminergica

Accanto ai sistemi noradrenergico e serotoninergico, un ruolo rilevante è stato attribuito anche al sistema dopaminergico, in particolare per spiegare sintomi come anedonia, ridotta motivazione e rallentamento psicomotorio, non sempre adeguatamente trattati dai farmaci tradizionali. L’ipotesi dopaminergica, inizialmente secondaria, ha acquisito centralità con l’osservazione che molti pazienti depressi presentano disfunzioni della via mesolimbica dopaminergica, coinvolta nei processi di gratificazione, interesse e attivazione.


La depressione si assocerebbe a una ridotta attivazione dei recettori D2, localizzati sia a livello pre-sinaptico (autorecettori che inibiscono il rilascio di DA) sia post-sinaptico. Studi clinici hanno evidenziato che l’apomorfina, agonista dopaminergico, può indurre sintomi depressivi agendo proprio su tali autorecettori. Al contrario, gli antidepressivi dopaminergici, modulando questi recettori, ne riducono la sensibilità e aumentano così il rilascio di dopamina.


Dati clinici e sperimentali hanno inoltre mostrato una correlazione positiva tra intensità dei sintomi extrapiramidali (segno di ipodopaminergia) e gravità della depressione. Pazienti con parkinsonismo o trattati con neurolettici (bloccanti dopaminergici) sviluppano più frequentemente sintomi depressivi, rafforzando l'ipotesi di un coinvolgimento dopaminergico diretto.


Studi farmacologici condotti da Altamura, Corsini e altri ricercatori hanno evidenziato che l’apomorfina induce sintomi depressivi per attivazione dei recettori D2 pre-sinaptici, mentre il trattamento cronico con antidepressivi può ridurne la sensibilità. L'efficacia di agonisti dopaminergici come la L-DOPA è stata dimostrata in sottogruppi di pazienti con depressione unipolare caratterizzata da marcato rallentamento psicomotorio, anche se gli effetti sono spesso transitori.


Infine, sono stati individuati sottotipi recettoriali dopaminergici (D3, D4, D5), la cui precisa funzione nella patogenesi della depressione è ancora oggetto di studio. Alcuni di questi potrebbero rappresentare nuovi target farmacologici per lo sviluppo di terapie innovative.

Il dosaggio dell'acido omovanillico (HVA)

Un ulteriore elemento a sostegno dell'ipotesi dopaminergica deriva dagli studi sui metaboliti delle monoamine nel liquido cerebrospinale (CSF). In particolare, l'acido omovanillico (HVA), principale metabolita della dopamina, risulta ridotto in alcuni sottotipi di depressione. Kasa e Lakshmi Reddy hanno riscontrato livelli significativamente inferiori di HVA nei pazienti depressi rispetto ai soggetti sani, sebbene altri studi, come quello di Post et al., abbiano mostrato risultati meno conclusivi.


Una metanalisi condotta da Banki ha suggerito che la riduzione dell’HVA nel CSF sia particolarmente marcata nelle forme depressive con rallentamento psicomotorio predominante. Inoltre, Ray e collaboratori hanno trovato una correlazione tra bassi livelli di HVA e incremento del rischio suicidario, supportando l’ipotesi che l’ipodopaminergia possa avere un ruolo centrale nella genesi di alcune forme depressive severe.

Asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e stress

Tra le ipotesi patogenetiche moderne della depressione, quella neuroendocrina rappresenta uno dei modelli più solidi. In condizioni di stress cronico, l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), principale mediatore neuroendocrino della risposta allo stress, può andare incontro a una disfunzione regolatoria. Il risultato è un'iperattivazione dell'asse, con ipersecrezione di cortisolo da parte della corticale surrenalica.


Tale ipercortisolemia persistente esercita effetti neurotossici a livello dell’ippocampo, una regione cerebrale coinvolta nella regolazione dell’umore e nella retroazione negativa sull’asse HPA. Il cortisolo in eccesso riduce la neurogenesi, favorisce l’apoptosi e causa atrofia ippocampale, come documentato da studi di imaging. Questo spiegherebbe, almeno in parte, i deficit cognitivi spesso presenti nella depressione.


Il test di soppressione con desametasone (DST), utilizzato per valutare l’integrità del feedback negativo mediato dai recettori glucocorticoidi, risulta alterato in una percentuale significativa di pazienti depressi. In questi soggetti, la desametasone non è in grado di sopprimere adeguatamente la produzione di cortisolo, a dimostrazione di una resistenza dei recettori glucocorticoidi a livello ipotalamico.


Il cortisolo, oltre ad agire direttamente su strutture cerebrali vulnerabili, altera anche la trasmissione monoaminergica e inibisce la sintesi del fattore neurotrofico BDNF, contribuendo così alla compromissione strutturale e funzionale delle reti cerebrali implicate nella regolazione dell’affettività.

Ipotesi infiammatoria e immunitaria

La depressione è stata sempre più riconosciuta come una sindrome a componente immuno-infiammatoria. Evidenze emergenti indicano che, in molti pazienti depressi, i livelli plasmatici di citochine proinfiammatorie come interleuchina-6 (IL-6), interleuchina-1β (IL-1β) e TNF-α risultano significativamente elevati rispetto ai controlli. Tali citochine sono in grado di attraversare la barriera emato-encefalica o di stimolare vie neuronali afferenti (es. il nervo vago), alterando così la fisiologia cerebrale.


Uno dei meccanismi attraverso cui l'infiammazione altera la neurotrasmissione riguarda l’attivazione dell’enzima indoleamina-2,3-diossigenasi (IDO), indotto dalle citochine. L’IDO devia il metabolismo del triptofano, aminoacido precursore della serotonina, verso la produzione di chinurenina e dei suoi metaboliti neurotossici (es. chinolinato), riducendo così la disponibilità di 5-HT. Questo contribuisce a un'ipofunzione serotoninergica e, allo stesso tempo, può esercitare effetti neurodegenerativi.


Inoltre, la neuroinfiammazione compromette il funzionamento delle cellule gliali. La microglia attivata può produrre ossido nitrico, prostaglandine e radicali liberi, con effetti citotossici. Gli astrociti, fondamentali per il sostegno metabolico e sinaptico dei neuroni, risultano ridotti numericamente e funzionalmente in numerose aree corticali di pazienti depressi. Tali alterazioni contribuiscono a una compromissione globale dell’omeostasi sinaptica e della plasticità neuronale.

Fattori neurotrofici e neuroplasticità

Un’ulteriore ipotesi chiave nella comprensione moderna della depressione è quella della compromissione della neuroplasticità. Il cervello dei pazienti depressi mostra alterazioni nella capacità di rimodellamento sinaptico e ridotta neurogenesi, in particolare a livello dell’ippocampo, della corteccia prefrontale e dell’amigdala, strutture cruciali per la regolazione dell'umore e della risposta allo stress.


Il fattore neurotrofico derivato dal cervello (BDNF) è una proteina essenziale per la sopravvivenza neuronale, la sinaptogenesi e la plasticità sinaptica. Studi su modelli animali e su esseri umani hanno dimostrato che i livelli di BDNF risultano ridotti nella depressione maggiore, soprattutto a livello ippocampale e sierico. Lo stress cronico, attraverso l’attivazione dell’asse HPA e l’iperproduzione di cortisolo, sopprime la trascrizione del gene BDNF e ne inibisce la produzione.


Gli antidepressivi, oltre ad agire sui sistemi monoaminergici, sembrano esercitare il loro effetto terapeutico anche attraverso l’aumento della sintesi di BDNF e la riattivazione della neurogenesi ippocampale. Questo effetto, che si verifica solo dopo un trattamento protratto per almeno 2-3 settimane, coincide con la latenza dell’efficacia clinica degli antidepressivi. Tali osservazioni hanno portato all’elaborazione della cosiddetta "neuroplasticity hypothesis", secondo la quale il recupero funzionale delle reti neurali, più che il ripristino dei livelli di neurotrasmettitori, rappresenta il fulcro dell’azione antidepressiva.


Anche varianti genetiche nel gene BDNF, come il polimorfismo Val66Met, sono state associate a una maggiore vulnerabilità alla depressione, peggiori risposte al trattamento e alterazioni strutturali cerebrali. La combinazione tra fattori genetici, infiammazione cronica, stress prolungato e alterata disponibilità di BDNF crea un terreno favorevole allo sviluppo e alla cronicizzazione della malattia depressiva.

Conclusioni

La patogenesi della depressione si configura come un modello integrato e multidimensionale. L’originaria teoria monoaminergica ha fornito un utile punto di partenza, ma oggi è chiaro che la sola alterazione della trasmissione di serotonina, noradrenalina e dopamina non è sufficiente a spiegare l’intero spettro della patologia depressiva.


Le evidenze attuali indicano una fitta rete di interazioni tra sistemi neurotrasmettitoriali, vie neuroendocrine (in particolare l’asse HPA), processi infiammatori sistemici e locali, fattori neurotrofici e meccanismi di plasticità cerebrale. La destabilizzazione anche parziale di uno di questi sistemi, specie in soggetti predisposti geneticamente o sottoposti a stress cronico, può innescare un processo di disregolazione a cascata che porta all’insorgenza del disturbo depressivo.


L’approccio terapeutico moderno deve pertanto mirare non solo al ripristino della neurotrasmissione monoaminergica, ma anche alla normalizzazione dell’attività dell’asse HPA, alla modulazione dell’infiammazione neuroimmune e al recupero della neuroplasticità. In quest’ottica, le strategie future potranno includere, oltre agli antidepressivi tradizionali, modulatori neuroendocrini, antinfiammatori, farmaci neurotrofici e approcci personalizzati basati sul profilo biologico individuale.

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